Qualsiasi agricoltore minimamente consapevole di come funziona il mercato globale, avverte che egli troppo spesso si trova a confrontarsi con prodotti provenienti da paesi a concorrenza sleale.
Ovvero quei paesi in cui per varie ragioni (fiscali, previdenziali, ambientali, normative, di costo del lavoro etc.) i costi di produzione sono inferiori a quelli di un ordinario agricoltore italiano.
E’ ovvio che in queste condizioni i margini di ricavo per i nostri produttori sono molto esigui.
Di fronte alle oggettive rimostranze degli agricoltori troppo spesso ho assistito alla seguente confortante rassicurazione offerta dalle istituzioni, da esperti economisti, e guru vari: “si tratta soltanto di attendere, a breve, anche i paesi a concorrenza sleale una volta diventati ricchi, cominceranno ad acquistare i prodotti italiani di qualità”. Così che i poveri agricoltori italiani potranno finalmente beneficiare, anche loro, del mercato globale.
Per quanto sicilianamente scettico, mi lasciavo cullare anche io, da questo promettente refrain, nell’attesa di questo radioso futuro.
Qualche giorno fa casualmente, mi è capitata sotto gli occhi un'intervista sulla prestigiosa rivista di geopolitica LIMES, nella quale Barilla denuncia le difficoltà di vendita delle produzioni agroalimentare italiane all’estero.
In particolare mi ha colpito la seguente domanda:
LIMES: Ciò non toglie che i cinesi, almeno quelli istruiti, urbanizzati e benestanti, siano affascinati dalla tradizione culturale italiana e, più in generale, europea.
BARILLA: Anche questo è un mito da sfatare. In generale, il cinese emergente ha in testa solo una cosa: il denaro. Questo lo spinge, nella ricerca di prodotti e stili di vita "di tendenza" - dall'alimentazione al vestiario, dall'arredamento alla tecnologia - a guardare soprattutto al Giappone, che domina l'immaginario estetico dell'emergente borghesia cinese.
Ma allora questi cinesi compreranno mai le nostre produzioni agricole. O continueranno ad inondarci di prodotti, senza alcuna contropartita?
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