Interessante l'articolo che vi propongo di seguito, uscito nell'edizione cartacea del Corriere della Sera del 24 Settembre a firma Dario Di Vico. La Germania si conferma un panzer anche nel settore food, ed aggredisce i mercati stranieri con crauti e wurstel senza lambiccarsi troppo con il mito delle eccellenze.
Purtroppo a leggere questo altro articolo l'export agroalimentare italiano sarebbe inferiore non solo a quello della Germania, ma anche a Francia, Spagna e Inghilterra.
Per come avverto la situazione in Italia, mi sembra che i mercati esteri siano sempre più una terra promessa, e non si parli altro che di produrre a Km 0 e consumare locale, ma io mi chiedo: perché accettare di entrare nel circo globale ed inevitabilmente concedere l'ingresso di prodotti esteri, se poi l'obiettivo era di consumare il prodotto sotto casa?
Dal vino all'olio anche il Made in Italy classico resta dietro la
Germania
I tedeschi esportano più di noi persino nell'alimentare. Non bastano i successi cinesi delle
vetture Volkswagen a procurarci rimorsi, anche nel food abbiamo fatto meno di quanto
avremmo potuto e dovuto. Potrà, infatti, sembrare incredibile che il Paese della pasta, del vino,
del prosciutto crudo, del parmigiano, dell'olio d'oliva e di tante altre specialità, sia largamente
dietro ai tedeschi nelle vendite all'estero ma è la pura verità.
Berlino vende oltrefrontiera il 27,5% della propria produzione e si tratta soprattutto di latte e
derivati, carni, cioccolata, the e caffè. Noi riusciamo ad esportare solo il 19% di quanto
produciamo e si tratta di una quota inferiore a quella degli altri settori del made in Italy.
Secondo il capo-economista di Intesa Sanpaolo Gregorio De Felice è giunto il momento di
recuperare terreno e di darci un obiettivo ambizioso: raggiungere la Germania almeno in
termini relativi (percentuale di export su fatturato nazionale). In numeri vuol dire programmare
un balzo in avanti delle nostre esportazioni di quasi 10 miliardi di euro (oggi siamo a quota 24,3
miliardi). In tempi di disoccupazione galoppante la prima domanda è quasi scontata: a quanti
posti di lavoro corrisponderebbe una così forte accelerazione del made in Italy? E' difficile
prevederlo anche se secondo Filippo Ferrua, presidente degli industriali di Federalimentare,
saremmo nell'ordine di qualche migliaio di nuovi posti. Più ottimista la stima del Servizio studi
e ricerche di Intesa Sanpaolo che al tema ha dedicato uno studio e un affollato convegno.
Negli ultimi dieci anni l'avanzata dei prodotti della tavola tedesca è stata lenta ma continua. Si
è giovata sicuramente della crescita dei paesi limitrofi e più generale dell'Est europeo e della
forza di una grande catena di distribuzione come la Rewe. Nello stesso lasso di tempo il made
in Italy ha retto subendo però nella classifica mondiale un piccolo arretramento. E' realistico,
quindi, oggi porsi l'obiettivo di vendere all'estero 10 miliardi di euro in più? Per Ferrua lo è e la
dimostrazione sta nel successo che incontrano nel mondo i prodotti di italian sounding, marchi
che foneticamente sono italiani ma quanto a marchi, materie prime e qualità del processo
industriale sicuramente no. Sono i vari Parmesan inventati in più Paesi e casi di assoluto
successo come la pasta francese Panzani. Ebbene l'
italian sounding
ha un giro d'affari di 60 miliardi di euro e di conseguenza la potenzialità di collocare vero made
in Italy c'è tutta. Si tratta solo di darsi da fare.
Che cosa manca, però, al nostro food per accorciare le distanze con i tedeschi? Non certo la
qualità e tantomeno la fantasia. Noi vendiamo meno latte e latticini di loro e anche meno carne
ma abbiamo la pasta e il vino, i salumi, l'olio di oliva. Dal punto di vista industriale
l'agro-alimentare italiano si presenta eccessivamente frammentato, le Pmi sono la norma
mentre mediamente le aziende tedesche sono più robuste. Proprio perché piccole le nostre
aziende non riescono a imporre minimamente il loro brand all'estero. E' vero che abbiamo
grandi marchi conosciuti ovunque, però sono tutto sommato pochi quelli che però si possono
permettere di investire in pubblicità all'estero. Pesa poi quello che viene chiamato il
protezionismo sanitario, una forma di ostruzione all'importazione di salumi, formaggi e persino
dolci, praticata da una serie di mercati importanti come Usa, Brasile e India.
Ma se dovessimo individuare il vero tallone d'Achille dell'alimentare italiano, lo svantaggio
competitivo nei confronti di tedeschi e francesi sta nella mancanza di grandi reti di distribuzione
nazionali. I cugini transalpini ad esempio hanno sfondato in Cina grazie ai loro colossi del
carrello, Carrefour fuori della Francia ha più di 16 mila punti vendita. Noi confidiamo
moltissimo nel genio commerciale di Oscar Farinetti e della sua Eataly ma è evidente che
stiamo parlando di dimensioni del tutto differenti. Il food made in Italy proprio perché non
sostenuto da nessuna catena di grande distribuzione (Esselunga e Coop Italia non hanno nei
loro programmi sfondamenti oltrefrontiera) deve implorare un angolo nei grandi supermercati o
finisce nella cosiddetta area etnica assieme a prodotti che vengono da altri Paesi o continenti
in un pout-pourri che mescola couscous, paella e prosciutto di Parma. Qualche grande azienda
come Rana, Illy e ora Barilla ha realizzato o sta pensando di costruire una rete di propri
ristoranti e bar: è una scelta giusta anche se si tratta di investimenti costosi che si ripagano
solo nel tempo. Altri come Beretta Salumi preferiscono aggirare il protezionismo sanitario
andando a produrre in loco come è accaduto negli Usa e in Cina.
Spesso a ridurre le potenzialità del made in Italy c'è anche la resistenza dei produttori italiani a
mettere sul mercato prodotti veramente globali. Il mondo vuole arance gialle e snobba le
buonissime arance siciliane rosso sangue, i formaggi stagionati che da noi spopolano sono
poco conosciuti nel mondo che invece predilige i molli. In Cina una cosa è vendere alla ricca e
cosmopolita comunità degli espatriati di Shanghai, altro è pensare di espugnare le roccaforti
del tofu, il formaggio cinese. Se si vuole sfondare nelle metropoli occidentali bisogna
rassegnarsi a produrre confezioni per single anche se la qualità del parmigiano, ad esempio,
sicuramente ne soffre. Sono solo esempi ma fanno dire agli esperti che «non dobbiamo
imporre il made in Italy ma saperci adeguare». Tra i prodotti che, almeno sulla carta, hanno le
maggiori chance di crescita sono l'olio di oliva, le conserve vegetali, il caffè e i dolci. E i
mercati sui quali gli esperti invitano a insistere sono Russia, Emirati Arabi e Corea dove non
esistono comunità italiane ed è dunque terreno vergine.
Ma il sistema Italia avrà la forza e la determinazione per sostenere la provocazione di De
Felice?
Skandiski
RispondiEliminaAzz! ke rimbalzo i future del grano....qualcuno sa il motivo?
Mi sono informato: pubblicazione scorte USDA. Anche il Matif è in rialzo.
Eliminaoh, ma non ci si può distrarre un attimo...
Eliminapiù tardi o al massimo domattina pubblico un post.
Skandiski
RispondiEliminaed io lo leggerò....